Tribunale di Genova, ord. 12 marzo 2018
"Quanto alla protezione umanitaria, l’art. 32 3° comma d.lgs. 25/2008 dispone che la Commissione Territoriale, quando non accolga la domanda di protezione internazionale, ma ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, deve trasmettere gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5 comma 6 d.lgs. 286/98.
Al riguardo la Corte di Cassazione ha stabilito che la protezione umanitaria deve essere riconosciuta tutte le volte in cui sussiste una situazione di vulnerabilità da proteggere (Cass. 1.7.14 n. 22114), precisando che la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, possa aver luogo in presenza di “un quadro sintomatico di pericolosità per l'incolumità del richiedente, rappresentato dalla conservazione di un sistema di vendette private, sostanzialmente tollerato o non efficacemente contrastato, anche se non riconducibile per assenza del fumus persecutionis e della situazione di violenza incontrollata rispettivamente al rifugio politico e alla protezione sussidiaria.” (così Cass. civ. n. 2294 del 2012, n. 8399 del 2014, Cass. civ. Sez. VI - 1, Sent., 27-10-2015, n. 21903).
I giudici di legittimità hanno inoltre affermato il principio secondo cui “In tema di protezione internazionale dello straniero, quando, in sede di valutazione giudiziale delle condizioni necessarie ai fini della concessione della misura della protezione sussidiaria, venga accertata l'esistenza di gravi ragioni di protezione, reputate astrattamente idonee all'ottenimento della misura tipica richiesta ma limitata nel tempo, (ad esempio, per la speranza di una rapida evoluzione della situazione del paese di rimpatrio o per la stessa posizione personale del richiedente, suscettibile di un mutamento che faccia venire meno l'esigenza di protezione), deve procedersi, da parte del giudice, al positivo accertamento delle condizioni per il rilascio, della minore misura del permesso umanitario, che si configura come doveroso da parte del Questore.” (cfr. Corte di Cassazione, Sez.6-1, Ordinanza n. 24544 del 21/11/2011).
Infine, quanto alla valutazione della domanda ed alle regole probatorie va osservato che l’art. 3 del d. lgs. 2007 n. 251, conformemente alla Direttive di cui costituisce attuazione, stabilisce che nell’esaminare i fatti e le circostanze poste a fondamento della domanda di protezione si debbano principalmente, per quanto qui interessa, valutare:
tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese di origine al momento dell’adozione della decisione;
le dichiarazioni e i documenti pertinenti presentati dal richiedente, che deve rendere noto se ha subito o rischia di subire persecuzione o danni gravi;
la situazione individuale e le circostanze personali del richiedente.
La norma specifica inoltre che “il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danno gravi o minacce dirette di persecuzioni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, salvo che si individuino elementi o motivi per ritenere che le persecuzioni o i danni gravi non si ripeteranno e purché non sussistano gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine”. Inoltre, sempre in base all’art. 3 cit., qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri quando l’autorità competente a decidere ritiene che:
a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda;
b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita idonea motivazione dell’eventuale mancanza di alti elementi significativi;
c) le dichiarazioni del richiedente siano da ritenersi coerenti, plausibili e non in contrasto con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone relative al suo caso;
d) egli abbia presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla;
e) il richiedente sia in generale attendibile.
Si tratta, come ricordato di recente dalla Corte di Cassazione (ordinanza 9 gennaio – 4 aprile 2013 n. 8282), di uno scrutinio fondato su parametri normativi tipizzati e non sostituibili, tutti incentrati sulla verifica della buona fede soggettiva nella proposizione della domanda e che impongono una valutazione d’insieme della credibilità del cittadino straniero, fondata su un esame comparativo e complessivo degli elementi di affidabilità e di quelli critici.
La Suprema Corte aveva peraltro già da tempo precisato che “in materia di riconoscimento dello “status” di rifugiato, i poteri istruttori officiosi prima della competente Commissione e poi del giudice, risultano rafforzati; in particolare, spetta al giudice cooperare nell’accertamento delle condizioni che consentono allo straniero di godere della protezione internazionale, acquisendo anche di ufficio le informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione politica del Paese di origine. In tale prospettiva la diligenza e la buonafede del richiedente si sostanziano in elementi di integrazione dell’insufficiente quadro probatorio, con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere probatorio dettate dalla normativa codicistica vigente in Italia” (Cass., SSUU, 17.11.2008 n. 27310) e anche la giurisprudenza di merito aveva più volte sottolineato che “La Legge impone di considerare veritieri gli elementi delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non suffragati da prove, allorché egli abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e le sue dichiarazioni siano coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone” (sul punto da ultimo si veda altresì Cass. Sez. VI – ordinanza del 10.4.2015 n. 7333).
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Secondo il racconto del ricorrente, in estrema sintesi, egli sarebbe fuggito dal Senegal in conseguenza di forti contrasti con il cugino, motivati essenzialmente da ragioni ed economiche: il cugino gli avrebbe inopinatamente rivelato che la famiglia in cui era cresciuto non era costituita dai suoi genitori e dai fratelli, ma, appunto, dagli zii e dal cugino, il quale non voleva più dividere con il ricorrente i guadagni derivanti dal negozio del proprio padre (nonché zio del ricorrente).
Ritiene questo Giudice che il racconto del richiedente sia nel complesso accettabile, plausibile e non in contrasto con le informazioni generali di cui si può disporre e che al medesimo debba essere, quanto meno, riconosciuto il beneficio del dubbio.
Si deve dunque affermare che il richiedente abbia dimostrato una buona fede soggettiva, che le sue dichiarazioni siano credibili e che abbia fatto ogni ragionevole sforzo per fornire tutti gli elementi (Cfr. Cass. Ordinanza n. 16201 del 30/07/2015: “ Ai fini della domanda di protezione internazionale, l'art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007 richiede che il giudice non debba prendere in considerazione puramente e semplicemente la maggiore o minore specificità del racconto del richiedente asilo, ma gli impone anche di valutare se questi abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda (lett. a), se tutti gli elementi pertinenti in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi (lett. b)”; nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale il giudice di merito aveva respinto la domanda di protezione in virtù della semplice genericità della motivazione addotta dal richiedente).
Stabilita la credibilità del richiedente e comunque la plausibilità del suo racconto, non ritiene tuttavia il Tribunale che sussistano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato: i fatti esposti dal ricorrente non risultano infatti integrare il rischio di persecuzione diretta e personale per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica o di danno grave nel senso indicato, rispettivamente, dagli articoli 7 e 8 o dall’art. 14, lett. b) del d. lgs. 2007 n. 251: rischi, peraltro, neppure paventati dalla difesa del ricorrente.
Neppure paiono sussistere i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c) del D.D lgs 2007 n. 251: la normativa comunitaria ed interna, come presupposto per il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14 lett. c) del d.lgs. 2007 n.251, richiede infatti la presenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile, derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o interno o internazionale e, come recentemente ricordato la Corte di Giustizia ha ricordato che “mentre nella proposta della Commissione, che ha portato all’adozione della direttiva la definizione di danno grave … prevedeva che la minaccia contro la vita, la sicurezza o la libertà del richiedente potesse configurarsi sia nell’ambito di un conflitto armato, sia nell’ambito di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti dell’uomo, il legislatore dell’Unione ha invece optato per la codifica della sola ipotesi della minaccia alla vita o alla persona di un civile derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (punto 29 della sentenza 30.1.2014).
Nel caso di specie, infatti, le motivazioni poste alla base della decisione di lasciare il proprio Paese di origine sono di natura esclusivamente personale: egli ha il timore di trovarsi in una situazione di particolare vulnerabilità in conseguenza dei forti dissidi familiari e ciò non può ritenersi manifestamente infondato o del tutto inverosimile.
Oltre a ciò, va osservato che nel Paese di origine il ricorrente non ha genitori mentre qui in Italia ha iniziato un percorso di integrazione avendo partecipato a due giornate di xxxxx, gioca preso l’associazione xxxxxx di xxxxxx nonché sta svolgendo attività lavorativa presso la xxxxxx .
Va comunque ritenuto che nel caso di specie sussista una condizione di estrema “vulnerabilità” e l’opportunità della permanenza del ricorrente sul territorio nazionale, dove ha iniziato un significativo percorso di integrazione.
Per questi motivi, si ritiene che nel caso di specie possa trovare accoglimento la domanda di protezione umanitaria.
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