C'è una poesia bellissima di Wislawa Szymborska che s'intitola e parla di "Torture". Racconta di questa abominevole partica antica e del corpo al quale viene inflitta che prova dolore e non trova riparo perchè inesorabilmente c'è mentre l'anima si aliena da sè: "Tra questi paesaggi l’anima vaga, sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana, a se stessa estranea, inafferrabile, ora certa, ora incerta della propria esistenza, mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è e non trova riparo."
Ecco, all'indomani dell'approvazione della legge che introduce, dopo estenuanti discussioni e indegni compromessi, nel nostro codice penale il reato di tortura, penso che questa poesia contenga la definizione più esatta e spietata di tortura. Parola fino ad oggi impronunciabile almeno nel nostro ordinamento, ma che noi genovesi, che abbiamo assistito impotenti alla "macelleria messicana" della Diaz e all'indecenti violenze consumatesi nella caserma di Bolzaneto, dovremmo ben conoscere. A bene vedere, anche da noi, quella parola si compie, lacerando corpi e anime, con inquietante frequenza. E a farne le spese sono spesso i soggetti più deboli come dimostrano le indagini sulle violenze compiute dai carabinieri della Lunigiana ai danni di stranieri, prostitute e tossicodipendenti, picchiati con ogni strumeno e abusati anche sessualmente.
Ora, finalmente, quella parola è stata pronunciata anche dalle nostre istituzioni, di più, è stata scritta in una norma, l'art.613 bis del codice penale, che però sarà, nella maggior parte dei casi, inadatta a punire chi quella parola agisce e dunque a previnirne il suo indecente compiersi.
La legge infatti, scritta in italiano indecifrabile, impone, perchè possa configurarsi il reato, la previsione di una necessaria pluralità delle condotte violente (non una manganellata ma almeno due o tre), il riferimento alla verificabilità del trauma psichico (verosimilmente tramite certificati medico-legali di per sè costosi), l'ardua prova della "crudeltà" del torturatore e della minorata difesa del torturato e i tempi di prescrizione ordinari, limitando cosi notevolmente le possibilità per la vittima di vedere giustizia.
Non solo: la tortura viene codificata come reato generico, vale a dire che può essere commesso da chiunque, anche dal marito o compagno maltrattante e non soltanto da un pubblico ufficiale (in quest’ultimo caso è prevista un’aggravante).
Ciononostante, una speciale categoria di pubblici ufficiali, vale a dire le forze dell'ordine, si è immediatamente sentita chiamata in causa ed ha reagito all'approvazione della legge, con quella stessa arrogante violenza sottesa al crimine che la norma vorrebbe vietare e punire. Come mai, verrebbe da chiedersi, temono tanto una legge che vieta a chiunque di torturare il prossimo? Cos'hanno da temere? Di quali limiti alla loro libertà di azione su quei corpi in loro cusodia si dolgono?
Certamente è una legge scritta male, tuttavia non sono le divise a doversene lamentare ma semmai le vittime di tortura e chi le tutela. Come i magistrati che si sono occupati dei processi del G8 di Genova che in una lettera alla Presidente della Camera Boldrini hanno provato a spiegare che, con una simile norma, non si riuscirebbe a punire neppure i reati commessi dalle forze dell'ordine in quell'indimenticabile luglio genovese di 16 anni fa. Il rishio, con una legge scritta male, è quello di garantire, come, avvisa il Commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa Nils Muižnieks “scappatoie per impunità”. E sono proprio queste scappatoie a preoccuparci, perchè in Italia non solo la tortura è praticata fino alle estreme conseguenze ma vige l'insana prassi di espellere cittadini stranieri verso Paesi considerati "amici" nei quali la tortura viene agita con fiera ostentazione. Basti pensare all'Egitto di Al Sisi dove Giulio Regeni è stato sequestrato, torturato e ucciso nella (per ora) totale impunità e dove almeno tre persone al giorno subiscono la sua stessa sorte: qui le nostre autorità hanno rimpatriato coattivamente negli ultimi 12 mesi, ben 926 persone che anche da quelle torture fuggivano. Alla fine, come sempre, ha ragione la poesia "Nulla è cambiato. C’è soltanto più gente.."
Repubblica, Genova 16 luglio 2017