Stefano e Gabriella quando hanno letto il suo nome, nella macabra ma necessaria lista, non volevano crederci. Io avevo uno strano, nefasto presentimento. Quando ho appreso la notizia dei 16 braccianti morti vicino a Foggia in due diversi incidenti nei furgoni dove erano stipati, allo strazio e alla indignazione per una strage indecente e vigliacca, si è aggiunta l’inquietudine che avesse colpito tra le vittime, uno dei “nostri”. Molti dei nostri assistiti infatti, durante la stagione estiva spesso sono costretti a migrare ancora, nel sud Italia , per provare a guadagnare qualche spicciolo da mandare a chi e’ rimasto indietro, intrappolato nelle privazioni e nelle violenze dei paesi di origine o imprigionati nei lager libici. E non valgono a nulla le nostre comode raccomandazioni, così come i giudiziosi rimbrotti per chi tenta maggiore fortuna in altri paesi europei sempre meno ospitali di come si spera. Anane,come molti altri, era spinto da necessità e malesseri, disagi insondabili e bisogni irrefrenabili. Anane. ogni anno nella buona stagione andava a Foggia a fare la raccolta dei pomodori e ogni anno in inverno, tornava nella sua Genova. E che un giovane uomo, gentile e forte che è riuscito a sopravvivere alle violenze in Ghana, alla guerra e alle carceri libiche, al mare (ieri come oggi, unica via di fuga e a volte di salvezza) fino ad approdare nel 2011 nelle nostre coste sempre meno accoglienti, cada sotto la violenza sfruttatrice dei caporali in Puglia, fa rabbia oltre che male. Il suo corpo violato raccontava le violenze in Libia, le storie atroci che ancora oggi non si vogliono ascoltare né credere possibili. Io e Stefano gli avevamo detto che era molto importante che la gente, cosi come i commissari e giudici che non gli avevano creduto e lo avevano condannato alla clandestinità, vedessero il male che aveva sofferto. Che capissero cosa vuol dire essere un profugo, cosa si patisce, quale protezione sarebbe doveroso riconoscere. E lui aveva acconsentito, ci aveva fatto dono delle sue ferite perché servissero ad evitarne altre. Di lui ci restano, insieme a dolcissimi ricordi, le fotografie a colori delle sue cicatrici. Mentre ne parliamo increduli e impotenti, ci diciamo che l’unica cosa che possiamo provare a fare è raccontare Anane, ridargli un nome, un’identità, restituirgli un pò delle sua dignità troppe volte oltraggiata o negata, ridare fiato e memoria alla sua gentilezza, E ci mettiamo insieme, ognuno coi suoi brandelli di ricordi, a ricostruìre la sua storia. Gabriella, che era la sua instancabile insegnante di italiano (e di molto altro ancora ) rammenta perfettamente, nonostante siano passati anni e moltissimi altri allievi abbiamo attinto dalla sua pazienza e dal suo sapere, che Anane al suo approdo in Italia era analfabeta. Faceva fatica a concentrarsi sulle lettere e ad imparare le parole anche se provava a leggerle scritte. Doveva vedere le cose reali che le parole rappresentano per imparare a scriverle e nominarle. Allora aveva escogitato un sistema ingegnoso: registrava sul cellulare, dopo aver chiesto alla sua insegnante o a Stefano, il nome delle cose, specie di quelle che più gli piacevano e tra queste le piante di un orto confinate con la casa dove era ospitato. L'orto era grande e il proprietario era un razzista inventore della denuncia preventiva: era andato in commissariato a denunciare i profughi appena arrivati nella limitrofa struttura di accoglienza per stupro, perché tanto, a detta sua, una violenza si sarebbe certamente consumata. Fu smentito dai fatti. I suoi vicini africani divennero famosi solo per aver spalato fango in una città troppo spesso ferita da alluvioni e incuria. L’ortolano denunciatore rimaneva atterrito nascosto dietro le finestre mentre Anane ammirava le sue melanzane e imparava a dire pomodoro al microfono del suo cellulare. E proprio mentre andava a raccogliere quei frutti rossi che gli piaceva tanto guardare e nominare è stato ucciso dall’ingordigia dei suoi sfruttatori.
(Da Repubblica Genova del 2 settembre 2018)