Imperdonabile. Ogni errore commesso da uno straniero, non importa se presunto o reale, se obsoleto o recente, se grave o irrisorio, se meramente segnalato o definitivo, se estinto, pendente o riabilitato, ogni errore, resta indelebile e imperdonabile.

C'è chi ha pagato il suo debito con la giustizia in termini di sanzioni o di privazione della libertà, chi ha patteggiato, chi ha portato con onore a termine il percorso di affidamento in prova, chi ignaro di tutto scopre dell'esistenza di vecchie sentenze di condanna emesse in contumacia per fatti inesistenti o rimossi dalla memoria.

Tutti, quando scoprono che quella macchia li ha segnati e li segnerà fino alla fine dei loro “giorni italiani”, restano atterriti.

“Ho già scontato la mia pena” è la frase che ti senti ripetere più spesso almeno da chi e’ stato effettivamente protagonista del processo e delle sue conseguenze.
Ma la pena, tocca spiegare loro, resta attaccata comunque addosso, incancellabile e insanabile, qualsiasi sia stato l'inciampo, il marchio della caduta resta indelebile.

Tempo fa, in un incontro tra aspiranti volontari per l'assistenza di persone ristrette o ex detenute, nel tentativo di prendere atto e arginare i nostri naturali pregiudizi, ci siamo sottoposti tutti al vergognoso quesito: ma io non ho mai, sbagliato, non ho mai commesso illeciti? o semplicemente non sono mai stato "beccato"?
Si poteva quasi guardare i film della memoria dei singoli partecipanti: chi pensava ai furtarelli da adolescente, chi alla guida in stato di ebrezza dopo qualche festa, chi ricordava manifestazioni non autorizzate o occupazioni di immobili, spesso per nobili motivi, chi ripensava con un brivido ad incauti acquisti di borse firmate o occhiali da sole sui marciapiedi del centro, i più pettegoli prendevano in considerazione i loro trascorsi da "diffamatori”, e i più rancorosi qualche vecchia rissa o un alterco con divise troppo zelanti.
Tutti noi avevamo i nostri scheletri nell'armadio di cui fortunatamente nessuno ci aveva mai chiesto conto. Ma nessuno di noi era straniero.
Per loro, per gli stranieri, il nostro legislatore è riuscito persino ad inventarsi il reato di "clandestinità" che punisce chi fa ingresso senza invito e chi permane, vale a dire respira, nel “sacro suolo italico” senza un permesso di soggiorno; per costoro è prevista anche la detenzione amministrativa in gabbie dove troppo spesso si muore di botte o reclusione come avvenuto ancora pochi giorni fa nel CPR di Gradisca di Isonzo.
In questi giorni di corsa alla sanatoria e di ripresa delle pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno e di concessione delle cittadinanza, quelle macchie lasciate da vecchie “colpe” tornano alla luce.
Parlo con persone straniere in Italia da tantissimi anni, studenti e lavoratori, padri di famiglia, o figli nati qui, tutti increduli.
Un errore, un solo errore e tutte le fatiche, i percorsi, i legami, le professionalità acquisite, vengono irrimediabilmente perdute.
Non è giusto, dicono.
Ed in effetti tocca spiegare e dolorosamente ammettere che la legge che pure studiamo e della quale a volte ci si innamora, sempre più spesso fa a botte con la giustizia. Ma fortunatamente non sempre vince.

La Repubblica di Genova 19 luglio 2020

 

Di Mauro Seminara

Una vicenda che fa scorrere rapida la sensazione di gelo nel sangue quella che tocca raccontare in questo articolo. Si tratta di una barca con 57 persone a bordo, partite da Zuwara, una delle enclavi dei trafficanti in Libia. La barca, un legno blu con un motore fuoribordo, secondo un allarme lanciato ieri da Alarm Phone, sarebbe rimasto alla deriva a circa 24 miglia sud di Lampedusa. Senza possibilità di manovrare, con una imbarcazione di evidente precarietà, senza radio, giubbotti salvagente o altra dotazione di sicurezza obbligatoria per qualunque natante a qualunque distanza dalla costa, la barca attende soccorsi. In quell’area la responsabilità del coordinamento soccorso è maltese, ma la barca dista oltre 150 miglia da Malta ed appena una ventina da Lampedusa, dove peraltro le motovedette non stanno mai ferme a causa dell’ingente flusso migratorio che la raggiunge.

So che il necessario distacco professionale dovrebbe impedire di utilizzare per i clienti l’espressione “ci metterei la mano sul fuoco”, che pure nel suo caso è quella che più mi viene spontanea. Lo conosco da almeno due lustri, ho visto negli anni le sue figlie crescere, ho letto i loro temi ed esaminato le loro pagelle. Conosco nel dettaglio i suoi studi , i percorsi della sua carriera, i suoi redditi familiari e le innumerevoli attività di volontariato.

Non basta la barriera trasparente di plexiglass (o plexiglas che dir si voglia) e neppure la mascherina chirurgica a proteggerci.

Lui non riesce a guardarmi negli occhi (seppure gli occhi siano l’unica parte del viso che entrambi abbiamo scoperta), fissa un punto tra me e la gamba del tavolo.

Lui non mi guarda, ma io non riesco a scostare il mio sguardo dai suoi occhi abbassati. Non per sfida, per costringerlo in qualche modo a ricambiarmi gli occhi, ma per istintiva attrazione.

 

Chiunque si occupi di immigrazione, chiunque sia più o meno direttamente coinvolto dalle normative in materia di permessi di soggiorno, in questi giorni complessi della fase due, in cui il virus incombe ma bisogna “ripartire”, viene sopraffatto dalla difficoltà di cercare di interpretare l’articolo 103 del cosiddetto decreto rilancio.

Questo articolo che vanta ben 26 commi, infatti, non è di immediata comprensione tanto più se si considera che i destinatari della norma sono (anche e soprattutto) migranti non proprio avvezzi ai tecnicismi del linguaggio giuridico.

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