Nella sua voce non si percepisce alcuna nota di spocchia nè, tantomeno, di sfida, semmai una punta di legittimo orgoglio ma anche di solitudine, quando inizia con "provate voi..."
Quante volte l'ho sentito pronunciato dai miei assistiti -profughi, detenuti, minori abbandonati, vittime di maltrattamenti, di tratta o di atroci violenze-, questo doloroso prologo: "prova tu" oppure, declinato nella sua variante disfattista: "tu non puoi capire"!

  Credo che sia stato in quei giorni, di quella stagione che non si può più chiamare estate, che tutto ha iniziato a franare. Già da prima di quel maledetto 20 luglio, a dire il vero, le nostre illusioni di "nativi democratici" sull'intangibilità di alcuni diritti (almeno ora e qui) davano segni di cedimento. Vedere la propria città blindata, trovarsi i lucchetti e le catene al portone, la toponomastica divisa in zone rosse, il rumore degli elicotteri, la follia mediatica che azzardava improbabili ipotesi di attacchi chimici o lanci di sacche di sangue infetto, offrivano l'idea che qualcosa di enorme stava per accadere.

E' un movimento rapido, abitudinario, ma rallentato in qualche modo dalla furtività, una fretta che impaccia.
Le mani, normalmente sicure e avvezze a quel gesto quotidiano, inciampano come incerte, perdendo secondi in realtà affatto preziosi. Eppure gli occhi si muovono repentinamente per verificare se l'attenzione dei compagni di avventura sia stata in qualche modo attirata su di sé.

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