È un gioco, anzi meglio, un esperimento che facciamo quando andiamo nelle scuole insieme con il mio amico illustratore Lorenzo Terranera. Prima diciamo ai pargoli di disegnare le loro paure e dargli un colore.

Sei stato scelto con cura e amore, come un regalo. Sei divenuto nel tempo ancora più prezioso perché irripetibile. Lei ti voleva, come sempre accadeva per i suoi compleanni, come un dono che facesse bene anche ad altri. Ti sei aggiunto alle scatole di sacchi a pelo che ancora oggi, ogni anno per la sua festa, noi figli e con noi papà, ci facciamo consegnare perché grazie a Lei e con l’immancabile aiuto degli amici della comunità di Sant’Egidio, si scaldino alcuni dei senza dimora della nostra città. Ti abbiamo scelto tra tanti, come te sfortunati, abbandonati, un po’ acciaccati e di media taglia. Eri ancora cucciolo ma nessuno ti aveva voluto con sé e la gabbia diventava sempre più vuota e stretta. La tua coda, innaturalmente stortissima, raccontava, insieme ai tuoi occhi (i più umani che abbia mai conosciuto in un quadrupede) un passato di disgustose violenze.

Mi guardavi muto, spaventato e implorante. E ti ho scelto. Ci siamo scelti. Abbiamo fatto un piccolo, emozionante viaggio per venirti a prendere ed è stato uno degli ultimi in famiglia, tutti insieme. Ma non potevamo saperlo. I ricordi di quella nostra ultima gita sono rimasti preziosi e nitidi.

E anche per questo sei stato un regalo nel regalo.

Ti abbiamo voluto perché non si poteva stare senza, noi che non conserviamo ricordi di casa che non comprendano animali di ogni specie e razza, quasi sempre soccorsi e divenuti inevitabilmente membri di famiglia. 

Lei ti voleva come un regalo ma ti ha scelto come un’eredità. E ti è sempre rimasta nell’espressione del muso color miele la serietà e la nostalgia di questo compito che hai assolto, fino allo strenuo delle forze, con amorevole diligenza.

Lei ti ha voluto e poi ti ha lasciato a prenderti cura di noi nel tempo dell’assenza. Muto ma fedele alla promessa. Ma poi ti sei ammalato anche tu, eppure hai finto, per noi, per preservare la nostra faticosa serenità, che andasse tutto bene. Alla fine però ti abbiamo scoperto. I dottori che si sono presi cura di te ti definiscono eroico per questo tuo non volerci abbandonare nè rattristare con tuo lamento. Ma te la leggo negli occhi, nei tuoi occhi così umani, la paura. E mi strazia. Hai ringhiato solo una volta, per difendere la tua dolcissima infermeria da un tuo collega peloso maleducato e un po’ aggressivo. Hai fatto un figurone per tutta la clinica! Ci congediamo da te con dolcissima lentezza, tu senti la nostra commossa gratitudine e noi la tua fedeltà a quella iniziale promessa. Ci stai facendo stare uniti, noi così indaffarati e distratti, in una tenerezza familiare della quale avevamo perso memoria. Un altro dei tuoi regali. E ci ha fatto conoscere Paolo e Beatrice, molto più che dei veterinari. Persone belle naturalmente capaci di rara empatia e preziosa professionalità.

E ora che dovremmo provare a restituirti un po’ della grazia che ci hai donato, tentiamo affannosamente di curarti senza riuscire a guarirti. E tu non stacchi gli occhi da noi. Eppure lo sai bene che il rapporto tra uomini e cani è per sua natura impari, noi si resta perennemente in debito, sempre un passo indietro, incapaci della totalità e della gratuità dei quali siete maestri ineguagliabili. Avete solo un intollerabile difetto, voi quattrozampe: durate, come quasi sempre accade per le vere gioie, troppo poco, per noi che vi vorremmo compagni di una vita intera.

Impotente, come solo noi bipedi sappiamo essere, e incapace di sostenere ulteriori assenze, oggi scrivo di te. Come se potesse farti o farmi bene. E’ un altro dei suoi insegnamenti, lei che ti ha voluto per noi, credeva nel potere salutare delle buone energie. E tu Brik, ne hai mosse e ne meriti tante. Così mi approprio colpevolmente di queste righe che ho a disposizione, consapevole che ben altre storie, che pure mi coinvolgono e scuotono, meriterebbero di essere raccontate, ma oggi, dopo che ho scelto per te il distacco più dolce, dolorosamente bisognosa di condivisione, non so scrivere se non di te.

Da Repubblica Genova del 16 settembre 2018

Stefano e Gabriella quando hanno letto il suo nome, nella macabra ma necessaria lista, non volevano crederci. Io avevo uno strano, nefasto presentimento. Quando ho appreso la notizia dei 16 braccianti morti vicino a Foggia in due diversi incidenti nei furgoni dove erano stipati, allo strazio e alla indignazione per una strage indecente e vigliacca, si è aggiunta l’inquietudine che avesse colpito tra le vittime, uno dei “nostri”. Molti dei nostri assistiti infatti, durante la stagione estiva spesso sono costretti a migrare ancora, nel sud Italia , per provare a guadagnare qualche spicciolo da mandare a chi e’ rimasto indietro, intrappolato nelle privazioni e nelle violenze dei paesi di origine o imprigionati nei lager libici. E non valgono a nulla le nostre comode raccomandazioni, così come i giudiziosi rimbrotti per chi tenta maggiore fortuna in altri paesi europei sempre meno ospitali di come si spera. Anane,come molti altri, era spinto da necessità e malesseri, disagi insondabili e bisogni irrefrenabili. Anane. ogni anno nella buona stagione andava a Foggia a fare la raccolta dei pomodori e ogni anno in inverno, tornava nella sua Genova. E che un giovane uomo, gentile e forte che è riuscito a sopravvivere alle violenze in Ghana, alla guerra e alle carceri libiche, al mare (ieri come oggi, unica via di fuga e a volte di salvezza) fino ad approdare nel 2011 nelle nostre coste sempre meno accoglienti, cada sotto la violenza sfruttatrice dei caporali in Puglia, fa rabbia oltre che male. Il suo corpo violato raccontava le violenze in Libia, le storie atroci che ancora oggi non si vogliono ascoltare né credere possibili. Io e Stefano gli avevamo detto che era molto importante che la gente, cosi come i commissari e giudici che non gli avevano creduto e lo avevano condannato alla clandestinità, vedessero il male che aveva sofferto. Che capissero cosa vuol dire essere un profugo, cosa si patisce, quale protezione sarebbe doveroso riconoscere. E lui aveva acconsentito, ci aveva fatto dono delle sue ferite perché servissero ad evitarne altre. Di lui ci restano, insieme a dolcissimi ricordi, le fotografie a colori delle sue cicatrici. Mentre ne parliamo increduli e impotenti, ci diciamo che l’unica cosa che possiamo provare a fare è raccontare Anane, ridargli un nome, un’identità, restituirgli un pò delle sua dignità troppe volte oltraggiata o negata, ridare fiato e memoria alla sua gentilezza, E ci mettiamo insieme, ognuno coi suoi brandelli di ricordi, a ricostruìre la sua storia. Gabriella, che era la sua instancabile insegnante di italiano (e di molto altro ancora ) rammenta perfettamente, nonostante siano passati anni e moltissimi altri allievi abbiamo attinto dalla sua pazienza e dal suo sapere, che Anane al suo approdo in Italia era analfabeta. Faceva fatica a concentrarsi sulle lettere e ad imparare le parole anche se provava a leggerle scritte. Doveva vedere le cose reali che le parole rappresentano per imparare a scriverle e nominarle. Allora aveva escogitato un sistema ingegnoso: registrava sul cellulare, dopo aver chiesto alla sua insegnante o a Stefano, il nome delle cose, specie di quelle che più gli piacevano e tra queste le piante di un orto confinate con la casa dove era ospitato. L'orto era grande e il proprietario era un razzista inventore della denuncia preventiva: era andato in commissariato a denunciare i profughi appena arrivati nella limitrofa struttura di accoglienza per stupro, perché tanto, a detta sua, una violenza si sarebbe certamente consumata. Fu smentito dai fatti. I suoi vicini africani divennero famosi solo per aver spalato fango in una città troppo spesso ferita da alluvioni e incuria. L’ortolano denunciatore rimaneva atterrito nascosto dietro le finestre mentre Anane ammirava le sue melanzane e imparava a dire pomodoro al microfono del suo cellulare. E proprio mentre andava a raccogliere quei frutti rossi che gli piaceva tanto guardare e nominare è stato ucciso dall’ingordigia dei suoi sfruttatori.

(Da Repubblica Genova del 2 settembre 2018)